Capitolo quinto
La corruzione ambientale
de sistema Italia

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capitolo primo ed indice | capitolo secondo | capitolo terzo | capitolo quarto | capitolo quinto | capitolo sesto | capitolo settimo | appendici e conclusioni | bibliografia

 

 

PARTE SECONDA

 

INTRODUZIONE

La corruzione del sistema politico italiano ha radici antiche e, ad esser precisi, si può affermare che l'Italia delle tangenti sia nata nel 1861. Gli uomini politici del Regno d'Italia, ventennio fascista compreso, non erano certo meno corrotti di quelli della Prima Repubblica, ed anch'essi sono stati protagonisti di numerosi scandali. Il primo fu quello della Regìa dei Tabacchi (1868), il più famoso quello della Banca Romana (1893) ed in entrambe le circostanze vi fu un'assoluzione generale di corrotti e corruttori.

Volendo circoscrivere l'indagine alla storia della Prima Repubblica, notiamo come il fenomeno della corruzione fosse già in atto negli anni '50, esplose negli anni '60 con l'allargamento della formula di governo ai socialisti e si generalizzò a tutti i livelli negli anni successivi. Di questo avviso è anche l'ex segretario regionale per la Lombardia della Democrazia Cristiana, Gianstefano Frigerio, che in un interrogatorio del 5 luglio 1992 affermò:

"Tutti coloro che ritengono che il rapporto inquinato tra politica e affari sia un fatto isolato e isolabile a questa nostra regione e a questa nostra fase storica compiono un grave errore. [...] In Italia, in una più attenta analisi dei fatti storici si può capire che questo fenomeno, questo inquinamento dei rapporti, erano già presenti negli anni '50. Però questo processo assume una forte dilatazione prima negli anni '60, con l'allargamento della formula di governo, cioè col centro sinistra, e poi ancora con la cultura politica consociativa perchè questo fatto politico riduceva di molto il ruolo delle opposizioni e quindi le funzioni di controllo. Ora il fenomeno e del tutto generalizzato a tutti i livelli, noto a tutti, e ha, per così dire, pervaso non solo l'apparato politico ma anche le funzioni amministrative burocratiche." ("L'Indipendente", 14 gennaio 1993)

Gli italiani sono un popolo nato, cresciuto ed educato al rispetto della tangente, non per indole, bensì per necessità, e di questo sono consapevoli. (vedasi appendice N°3)

La stragrande maggioranza dei cittadini sarebbe disposta a pagare una piccola cifra per accellerare l'iter di una pratica burocratica che altrimenti potrebbe durare mesi se non anni. Se si pensa che il ministro della Funzione pubblica, in un suo rapporto del luglio 1993, ha rivelato che il cittadino italiano, per chiedere documenti ed autorizzazioni burocratiche, "spende" tra le 15 e le 20 giornate lavorative l'anno, e che la durata media di un procedimento amministrativo in Italia è di 167,3 giorni, il pagamento della piccola tangente o mancia è un espediente necessario per rimediare all'inefficienza della pubblica amministrazione. Se a questo si aggiunge il fatto che gli impiegati statali percepiscono uno stipendio basso, la tangente assume il significato di solidarietà sociale da parte dei cittadini, e di rivalsa sullo Stato da parte del funzionario.

Per evidenziare come in Italia sia radicata la cultura della tangente, faccio riferimento ad un episodio che mi ha visto come protagonista. Nel 1989, insieme ad altri amici, mi informai circa le modalità di partecipazione ad un concorso per assunzioni in una grande banca nazionale; dopo pochi giorni mi si presentò un funzionario della banca stessa proponendomi un accordo: lui mi avrebbe fatto vincere il concorso ed in cambio, ad assunzione avvenuta, io gli avrei ceduto un anno dei miei stipendi. La cosa interessante è che quando ne parlai ai miei amici e ai miei genitori, nessuno, me compreso, si scandalizzò, anzi, prima di rifiutare, ne discutemmo argomentando che, dopotutto, un posto in banca poteva valere un anno di stipendi. Anche se rifiutammo, il fatto di dover pagare una tangente per ottenere un beneficio ci sembrò del tutto normale. Lo stesso giudice Antonio Di Pietro parlò di "dazione ambientale", cioè di tangenti che ormai facevano parte della normalità, che non venivano più vissute come un reato. Ovviamente, un Gardini che paga tangenti miliardarie per strappare un prezzo migliore per Enimont e facilitazioni fiscali allo Stato, non può essere considerato alla stregua del cittadino che fa la coda allo sportello.

Probabilmente, se non si fosse ecceduto nelle cifre, lo scandalo non sarebbe scoppiato, infatti, molti imprenditori hanno deciso di ribellarsi al sistema delle tangenti proprio perchè il 10-15% era divenuto insostenibile e l'indignazione degli italiani per lo scandalo non deriva dalla conferma che i politici rubavano (d'altronde si sapeva già), bensì dalla misura, dall'enormità delle ricchezze accumulate illecitamente a spese dello Stato e quindi del contribuente.

La corruzione politica è sempre stata presente in tutti i Paesi di tradizione democratica e non, tuttavia, mentre le loro classi dirigenti, sapendo di dover mantenere una minima legittimazione di fronte all'opinione pubblica, hanno espulso dal loro seno i responsabili dei casi più scandalosi (anche se questi ricoprivano altissime cariche politiche), in Italia i politici hanno badato più alla propria coesione interna (intesa come non ingerenza nei malaffari altrui) che alla loro rispettabilità politica ed hanno sempre protetto i propri ladri. La responsabilità di questa situazione è esclusivamente dei partiti politici che hanno operato nella Prima Repubblica. E' pur vero che questi sono stati i diretti rappresentanti dei cittadini, cioè l'anello di congiunzione tra la volontà popolare e le istituzioni, ma l'assenza di una gestione democratica al loro interno ha impedito un normale ricambio generazionale con la conseguente nascita di sub partiti e di correnti che, pur essendo formalmente "inquadrate" in un unico grande partito, si preoccupavano esclusivamente di mantenere o aumentare il loro potere politico. Essendo quest'ultimo direttamente proporzionale al consenso elettorale, i vari capi-corrente hanno generato la prassi del voto di scambio instaurando rapporti con la criminalità organizzata o ricorrendo smisuratamente alla falsa politica assistenziale. I partiti tradizionali hanno così potuto accentuare la loro intromissione nella gestione della cosa pubblica e dar luogo alla partitocrazia, sinonimo di occupazione di ogni posizione dominante all'interno delle istituzioni, animata da un'insana sete di potere che ha coinvolto, nella sua degenerazione, anche il sistema delle imprese.

 

CAPITOLO QUINTO

 

LA CORRUZIONE AMBIENTALE DEL
SISTEMA ITALIA

 

 

 

5.1 I COSTI DELLA POLITICA

5.2 CORRUZIONE O CONCUSSIONE?

5.3 IL PERCHE' DEL RITARDO DI TANGENTOPOLI

5.4 I TENTATIVI DI INTERDIZIONE DELL' INCHIESTA "MANI PULITE"

5.5 I TENTATIVI DI RISOLUZIONE DELL' INCHIESTA "MANI PULITE"

5.6 GLI OBBIETTIVI E I RISULTATI DELL' INCHIESTA "MANI PULITE"

 

5.1 I COSTI DELLA POLITICA

Sembra quasi impossibile ma fino allo scoppio di Tangentopoli nessuno aveva mai calcolato in maniera precisa i costi della politica italiana e quest'ultima, stando ai dati ufficiali, riesce ad esser gestita con costi bassissimi. I canali legali con cui i partiti politici possono finanziarsi sono rappresentati da:

a) Il finanziamento pubblico dei partiti, votato ed approvato dal parlamento, che prevede uno stanziamento annuo complessivo di circa 150 miliardi;

b) Sottoscrizioni, piccole attività economiche, donazioni per un totale circa di 50 miliardi l'anno.

Stando a queste cifre (prese dai bilanci dei principali partiti politici italiani), l'insieme dei partiti riesce ad assicurare il regolare svolgimento del processo democratico con circa 200 miliardi l'anno. Tutto ciò è impossibile, d'altronde come si fa a credere che i principali partiti operanti nella Prima Repubblica (DC, PSI, PCI/PDS, PSDI, PLI, PRI, MSI), con un finanziamento pubblico annuale che oscillava tra i 10 e i 20 miliardi cadauno, potessero mantenere in vita sedi faraoniche in quasi tutte le città e stipendiare le centinaia di funzionari che vi operavano? E come potevano (e possono tuttora) finanziare le costosissime campagne elettorali? Forse con i proventi delle Feste de l'Unità , de L'Avanti e similari? No di certo!

(vedasi appendice N° 1 e 2)

Andrea Parini, ex segretario regionale lombardo del Psi, disse in un'intervista a Giorgio Bocca:

"Se penso ai soldi succhiati dal partito in questi ultimi anni mi viene il capogiro, forse mille miliardi finiti in lustrini, in brutti libri, in sprechi, in nepotismi mentre un impiegato di federazione continuava a campare con un milione e mezzo al mese." (Bocca G., 1993 p. 140)

Lo stesso Craxi, alla domanda "Ma quanto incassava il Psi dal finanziamento illecito?" rispose:

"Da un appunto consegnatomi dopo la morte di Balzamo (segretario amministrativo, ndr), scritto da lui a mano, si ricava che le entrate diciamo 'straordinarie', nel quadriennio '87-'90, e poi ancora nel '91, erano all'incirca di 50 miliardi." ("Il Giornale", 13 ottobre 1994)

Volendo fare una stima molto prudenziale, si può calcolare il costo annuo della politica in 5000 miliardi di cui 2000 sono procurati dai partiti "scaricandoli" sulle spalle della pubblica amministrazione.

"In pratica i partiti sono riusciti a procurare un posto nella pubblica amministrazione a una serie di loro amici. Allo stipendio di queste persone, insomma, pensa la pubblica amministrazione. Per la verità, poi, queste stesse persone non fanno nulla per la collettività, ma lavorano per i partiti, che in questo modo risparmiano 2000 miliardi l'anno di stipendi." (Turani-Sasso, 1992 p. 9)

Parte dei restanti 3000 miliardi sono stati raccolti riscuotendo tangenti su qualsiasi attività: grandi opere pubbliche, speculazioni edilizie, ospedali, mense scolastiche, ecc., il resto ricorrendo ai finanziamenti, più o meno clandestini, provenienti dalla Cia e altri organismi americani, e dal Pcus. Mikhail Gorbaciov durante una conferenza tenuta a Firenze nel novembre 1994 disse senza mezzi termini:

"I finanziamenti del Pcus al Pci durante gli anni della mia segreteria? Non siamo ingenui, ne ho sentito parlare spesso e ne ho pure firmato qualcuno, d'altronde dalla parte avversa c'era chi spendeva dieci miliardi di dollari per ostacolare l'ascesa al potere dei comunisti in Italia." ("Il Giornale", 15 novembre 1994)

William Colby, ex capo della CIA, affermò l'esistenza di una responsabilità americana alla corruzione italiana. Quest'ultima è stata incoraggiata da Washington perchè contenere il comunismo prima della caduta del muro di Berlino significava finanziare la Democrazia cristiana e il Partito socialista e anche comprare le elezioni. D'altronde in Italia come in Grecia e in Francia si giocavano i destini dell'Europa occidentale. (Andreoli M., 1994 pp. 95-96)

Dopo il 1989 tali finanziamenti sono vertiginosamente calati ed i partiti, per poter mantenere il proprio altissimo tenore di vita, hanno elevato il coefficiente di tassazione applicato ai loro sponsor di sempre (Stato e industria), ed hanno iscritto a ruolo nuovi contribuenti introducendo la frase canonica con chi esitava a pagare: "se tu non, noi non".

"Nulla è sfuggito ai politici. Ed è una cosa abbastanza curiosa. La nostra non è una classe politica molto accurata, metodica o scientifica. Di solito è casuale, impicciona, lunatica, astratta e parolaia. Ma nel caso delle tangenti ha dimostrato un notevole talento organizzativo. Nulla è stato lasciato al caso. Le tangenti sono state pretese in tutte le occasioni in cui i partiti avevano titolo per pretenderle. Tutte le volte, cioè, in cui c'entrava la pubblica amministrazione [...] e con preventivi accordi di cartello fra i diversi partiti, in modo da arrivare a una suddivisione delle quote esatta al millimetro. E' possibile, sotto questo aspetto, che la politica italiana sia, dopo la mafia, la camorra e la ndrangheta, la quarta organizzazione malavitosa del paese." (Turani-Sasso, 1992 p. 10)

Stando a questi fatti, la sola, anche se non minima, differenza fra l'esazione mafiosa e quella dei politici era che i renitenti non venivano uccisi, per il resto procedure, regole e programmazione erano molto simili.

La situazione venutasi a creare è ancora più grave se si pensa che i nuovi contribuenti iscritti a ruolo non erano solo gli imprenditori ma anche tutti i cittadini a cui veniva imposto, con legge dello Stato, il pagamento di nuove tasse per supplire alla mancanza di fondi causata dalla pessima gestione politica della cosa pubblica. Il caso clamoroso fu l'introduzione, nel 1992, della famigerata "tassa sul medico di famiglia" (85.000 lire per ogni componente della famiglia), con la giustificazione che la Sanità era bisognosa di fondi, quando poi l'ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo (97 capi d'imputazione nei suoi confronti tra cui associazione per delinquere, corruzione, violazione della legge sul finanziamento pubblico a partiti, istigazione alla corruzione e false fatturazioni) intascava personalmente decine di miliardi dalle ditte farmaceutiche.

Finora ho parlato dei costi sostenuti dai partiti; questi son ben poca cosa rispetto ai costi diretti che ha dovuto sostenere la collettività. Tali costi hanno superato la soglia dei due milioni di miliardi di lire, cioè l'ammontare del debito pubblico dello Stato italiano. E' ovvio che questa enorme cifra non sia stata interamente spartita dai partiti, sia pure nell'arco di qualche decennio. In realtà bisogna distinguere tra soldi che i partiti hanno materialmente incassato e speso e quanto invece sono costati alla collettività. Facciamo un esempio partendo dall'assunto che i partiti hanno finanziato, con denaro pubblico, un grandissimo numero di opere assolutamente inutili: la giunta di un Comune da l'avvio ad un'opera inutile del costo di 10 miliardi sulla quale viene pagata una tangente di 500 milioni. Nelle casse dei partiti finiranno 500 milioni, ma nel conto del debito pubblico finirà l'intera somma di 10 miliardi.

All'enorme ammontare del nostro debito pubblico si è giunti anche a causa della decennale politica assistenzialistica che ha assicurato alla Democrazia Cristiana in primis un notevole serbatoio di voti in cambio di false pensioni d'invalidità, sussidi, posti di lavoro inutili, assenteismo non perseguito. (vedasi appendice N°4)

Vi sono poi i costi indiretti cioè quelli che non si possono quantificare in termini di lire ma che sono rappresentabili in termini di benefici per il Paese nel caso in cui fossimo stati governati da politici onesti e più validi professionalmente; ebbene, le perdite in questo senso sono incalcolabili.

"Inoltre l'inchiesta ha già determinato un forte rallentamento del lavoro degli apparati burocratici pubblici, soprattutto a livello di enti locali. Il timore di compiere atti che potrebbero in qualche modo configurarsi come illeciti, e quindi condurre a provvedimenti penali contro i responsabili, fa sì che molti capi servizio esitino e ritardino ad apporre la loro firma anche su pratiche del tutto "pulite", dalle quali comunque dipende il normale funzionamento degli uffici e di servizi essenziali. Tutto ciò ha un costo per la comunità."
(Silj A., 1994 p. 446)

Infine vi sono i costi morali rappresentati dall'immagine negativa che l'Italia ha dato al mondo intero, con la conseguente perdita di fiducia nei nostri confronti e la generica ed ingiusta assunzione del binomio italiani-corrotti. In particolare la stampa estera, pur non avendo generalizzato sull'illegalità in Italia, ha mosso pesantissime critiche circa l'affidabilità dei nostri politici facendo capire che, essendo questi eletti democraticamente dal Popolo, la responsabilità della situazione non può che essere degli italiani.

Il settimanale inglese "Economist" in un articolo tradotto e pubblicato su "L'Indipendente" del 30 maggio 1992, sentenziava senza mezzi termini:

"Quelli che sono in prima fila nella lotta contro la mafia non vedono più molta differenza tra i criminali a cui danno la caccia e i politici, quasi tutti i politici, che vivono a Roma. Nepotismo e corruzione sono divenuti parte della politica italiana a tal punto che molti politici non sono più in grado di dire quale sia la differenza tra quello che è giusto e quello che è sbagliato. [...] In Italia le tasse non vengono pagate, le regole non vengono rispettate, le pensioni distribuite a falsi invalidi, fiorisce l'economia sommersa. [...] Il grado di corruzione nella politica italiana è più alto che non nella maggior parte delle democrazie moderne."

 

5.2 CORRUZIONE O CONCUSSIONE?

E' lecito chiedersi se il sistema delle tangenti sia un problema di corruzione o di concussione? Sono i politici che hanno estorto gli imprenditori o sono quest'ultimi che hanno corrotto i politici? Il finanziamento illecito dei partiti derivava da spontanee donazioni o da precise richieste?

In un sistema talmente corrotto come quello italiano è difficile individuare il confine tra corruzione e concussione anche perchè questi sono i reati tipici di un sistema economico di libera concorrenza e difficilmente eliminabili. Spesso capita che un imprenditore, piuttosto che uscire dal mercato, preferisca chiedere un aiuto a chi è in grado di fornirglielo, ed il naturale istinto di sopravvivenza considera marginale il fatto che tale aiuto possa essere scorretto ed illegale. Oppure è anche possibile che un politico, consapevole di poter conferire benefici e creare problemi, obblighi l'imprenditore ad accettare il suo aiuto dietro, ovviamente, il pagamento di un corrispettivo, pena il danneggiamento economico della sua attività imprenditoriale.

L'unica differenza formale tra i reati di corruzione e concussione consiste nel soggetto che per primo propone l'accordo illecito: se il cittadino (qui inteso come l'imprenditore) offre la tangente si ha corruzione, se il burocrate (qui inteso come il politico) chiede il pagamento della tangente si ha concussione. Generalizzando il caso italiano risulta difficile stabilire quale dei due soggetti abbia fatto "la prima mossa"; spesso i politici non chiedevano esplicitamente, bensì lasciavano intendere l'obbligatorietà del pagamento ricorrendo a comportamenti e discorsi indiretti, a doppi sensi, ad esempi, riuscendo così a trasformare la richiesta in un'offerta spontanea dell'imprenditore. Quest'ultimo a sua volta sapeva a quale politico rivolgersi, e gli offriva la tangente senza neanche chiedere formalmente il beneficio corrispettivo, questo perchè era sicuro a priori della sua accettazione che, come consuetudine, comportava il conferimento automatico del beneficio stesso. Se la tangente veniva rifiutata era solo perchè il politico aveva già preso accordi con altri soggetti. Si era quindi in presenza dell'identità (tangente = beneficio).

A mio parere, nel caso italiano, ci troviamo di fronte ad un sistema misto che chiamerei corrussione. Questo è il prodotto di una lunga evoluzione che ha portato ad una situazione incerta. Il fatto di dover pagare tangenti su ogni transazione, pubbliche e non, veniva visto come un qualcosa del tutto normale, facente parte del normale iter formativo dell'affare, quindi l'imprenditore pagava la tangente al politico senza alcun risentimento ed il politico la incassava senza alcuna remora, come se fosse una cosa legalmente dovuta anche perchè non riusciva a concepire un modo di far politica che non fosse legato ai binomi denaro-potere, denaro-tessere, denaro-consenso. L'ex assessore repubblicano De Angelis affermò:

"Credo non si rendessero più conto di rubare, vivevano in un loro mondo dove le tangenti funzionavano come un orologio di precisione, in alto facevano le grandi combine e il partito fingeva di ignorarle, in basso i piccoli furti e la direzione chiudeva occhi ed orecchi perchè non se ne facesse scandalo e non si guastasse il consenso. Nessuno si interrogava sul futuro, nessuno si chiedeva dove andremo a finire, tutti si rassicuravano a vicenda dicendosi: tanto questo si può fare." (Bocca G., 1993 p. 127)

La consuetudine di questo sistema, accettato per molto tempo da entrambe le parti, ha reso riduttiva la distinzione in corruzione o concussione. Indicativa è la testimonianza del "faccendiere" Adriano Zampini:

"Io non trovai mai moti repulsivi da parte di nessuno per i miei discorsi di tangenti; mi parve anzi evidente che i miei interlocutori si attendessero da me proprio quelli. Nell'ambiente in cui mi muovevo io la tangente era istituzionalizzata. [...] Era un comportamento stampato ben chiaro nella testa delle persone interessate. [...] I politici con cui avevo a che fare erano gente che aveva capito che per mandare avanti la città bisognava superare certe barriere e fare delle cose: perciò occorreva mettere nel cassetto le ideologie, Marx o chi per lui, e fare delle cose; e se si ricavava qualcosa, tanto meglio." (Comunicato Ansa del 22 gennaio 1985)

"L'omertà è diventata la naturale difesa della complicità tra i politici da una parte, che si sono serviti del sistema produttivo ai propri fini, e degli imprenditori dall'altra, che non potevano fare a meno dei politici per salvaguardare e promuovere i propri interessi. Ciò ha finito per legare indissolubilmente le sorti degli uni con quelle degli altri, in una totale assenza di senso dello stato nei primi, e di etica dell'agire economico nei secondi, di responsabilità nei confronti della collettività e del sistema economico in entrambi."
(Silj A., 1994 p. 419)

Se da una parte gli imprenditori erano stati costretti ad accettare il sistema delle tangenti, dall'altra i politici minori, cioè quelli all'inizio della carriera, venivano "iniziati" al sistema della corruzione dai diretti superiori che in certi casi imponevano al collega più giovane la percezione di una tangente minima in modo tale che anch'essi entrassero nel giro e perdessero la loro "verginità". Diverse testimonianze hanno confermato che l'eventuale rifiuto della proposta fatta dall'alto avrebbe comportato una perdita di fiducia nei propri confronti con il conseguente rallentamento e, in certi casi, termine della carriera. Generalizzando i casi si può affermare che per poter avere un incarico di rilievo nel mondo della politica bisognava essere dei corrotti e per poter mantenere tale incarico occorreva utilizzare il potere a disposizione per fare il salto di qualità, diventando concussori ed "iniziatori" delle nuove leve.

In ogni caso la responsabilità maggiore per la situazione in cui ci si è venuti a trovare è dei politici. Se risultasse che i politici sono stati dei concussori ciò non farebbe altro che renderli due volte colpevoli in quanto il concussore è colui che obbliga i Terzi a corromperlo ed è quindi allo stesso tempo anche un corrotto. Nel caso di concussione, essendo l'input illegale proveniente dai politici, appare lievemente meno grave la posizione degli imprenditori, che tuttavia sono colpevoli in quanto, oltre a non aver denunciato l'estorsione all'autorità giudiziaria, hanno usufruito dei benefici offerti in cambio dai politici. Il giudice veneziano Carlo Nordio affermò:

"Appare chiaro che quando c'è passaggio di denaro tra imprenditore e amministratore è comunque più grave la posizione del secondo. Egli infatti viene meno al suo giuramento di obbedienza alle leggi. L'imprenditore invece non ha un dovere morale così forte da assolvere. Ma di fronte alla legge, nel caso di corruzione, sono entrambi responsabili e nella identica maniera." ("Il Giornale", 26 febbraio 1995)

Ci sono stati imprenditori che hanno cercato di opporsi al sistema delle tangenti, ma hanno subito capito che era come combattere una guerra già persa. Ne è esempio l'imprenditore monzese Luca Magni, titolare dell' "ILPI", impresa di pulizie industriali, che denunciò nel febbraio 1992 Mario Chiesa, dando così inizio all'inchiesta "Mani pulite": ebbene, a distanza di due anni e mezzo l'imprenditore è fallito per l'impossibilità di avere appalti di pulizia a causa dell'ostracismo degli altri imprenditori nei suoi confronti dopo la clamorosa denuncia.

"Da quando ho denunciato Mario Chiesa non ho avuto più nessun appalto. Qualcuno mi ha bisbigliato all'orecchio che non era conveniente dare lavoro a chi aveva osato rompere il patto di non aggressione tra imprenditori e politici." ("Il Giornale", 24 novembre 1994)

 

5.3 IL PERCHE' DEL RITARDO DI TANGENTOPOLI

Tutti sapevano che la stragrande maggioranza dei politici della prima Repubblica erano corrotti o concussori. E' vero che non si era al corrente dell'entità del fenomeno, delle cifre, ma chiunque non avrebbe messo la mano sul fuoco circa la completa onestà dei partiti. La longa manus del Partito Socialista Italiano, ad esempio, era conosciuta persino da Antonio de Curtis, alias Totò, che nel film "Destinazione Piovarolo" alludeva alquanto esplicitamente alla presunta disonestà di quel partito e ancora, in tempi più recenti, il comico Beppe Grillo, durante un memorabile spettacolo televisivo, accusò, senza mezzi termini, i socialisti di esser ladri e di rubare più degli altri. La cosa interessante fu che il Partito Socialista si limitò a smentire e a diffidare il comico, senza peraltro querelarlo.

Ma allora, se tutti sapevano, giudici compresi, perchè si è aspettato tanto a far esplodere il caso? Esistono diverse risposte a questa domanda. Quella a cui si è fatto più ricorso individua come causa del cambiamento la caduta del muro di Berlino. Fino al 1989 l'egemonia comunista nei Paesi dell'Est europeo era servita come scusa per i partiti di governo per giustificare l'assoluta necessità della loro permanenza alla guida del Paese; senza di loro l'Italia sarebbe caduta nelle mani del comunismo totalitario, e questo avrebbe causato il disordine totale.

Secondo me questa spiegazione, che verte su una causa esterna al sistema politico italiano, potrebbe esser accettata se, prima del 1989, non fossero nate quelle forze politiche innovative che sono riuscite a catalizzare l'attenzione ed il consenso di una buona percentuale di italiani. Faccio riferimento alla Lega Lombarda, al Piemont Liber, alla Liga Veneta, ecc, che successivamente hanno dato vita alla Lega Nord; quest'ultima ha avuto il merito di riuscire a far perdere progressivamente la credibilità ed il consenso dei tradizionali partiti politici italiani, e tale processo è iniziato ben prima della caduta del muro di Berlino.

"Bisognerebbe ipotizzare, se si accettasse tale spiegazione, che anche il successo della Lega Nord è figlio della caduta del muro, mentre invece non è così. La Lega ha dato voce al dissenso popolare, alla ribellione contro i modi in cui la cosa pubblica era gestita in Italia. Così facendo, con il suo successo, la Lega ha dimostrato che i partiti tradizionali erano vulnerabili. Lo erano anche prima, ma fino ad allora nessuno li aveva sfidati. Quindi l'inchiesta su Tangentopoli può nascere perchè è mutato il clima politico e sociale del paese, e mutati sono i rapporti di forza." (Silj A., 1994 p. 434)

Molti giornalisti hanno girato la domanda iniziale direttamente ai magistrati del pool milanese di "Mani pulite" i quali hanno sempre negato che la loro sia stata una rivoluzione, d'altronde non può essere rivoluzione il ristabilimento della legalità. I magistrati inizialmente hanno fornito spiegazioni "tecniche"; in particolare, il nuovo codice di procedura penale che permette di compiere indagini per sei mesi senza dover avvisare l'indagato ed il ribaltamento delle fonti sulle notizie di reato che ora possono venire acquisite direttamente dal pubblico ministero e non più esclusivamente dalla polizia giudiziaria. Successivamente i giudici milanesi non hanno più potuto negare l'importanza del mutato clima politico; il Procuratore capo della Procura della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli, disse in un'intervista rilasciata al "Corriere della sera" del 23 novembre 1993:

"Abbiamo in qualche modo preso atto e tradotto giudiziarmente qualche cosa che stava accadendo. Qualcosa che però andava ovviamente molto al di là di quello che poteva essere il nostro potere d'intervento [...]. Sarebbe in pratica incredibile che un manipolo di [...] sette magistrati possa aver creato questa sorta di terremoto nel Paese."

A tutto ciò bisogna aggiungere la recessione economica che ha reso ancora più onerosi i tributi richiesti dai partiti, ed il sistema è crollato quando il rapporto tra domanda e offerta si è sbilanciato a causa dell'avidità dei politici; questi, non avendo capito che era giunto il momento di dare un pò di "respiro" agli imprenditori, hanno fatto saltare il punto di equilibrio. Secondo i magistrati milanesi il sistema è saltato nel momento in cui sono "finiti i soldi"; solo allora la gente ha cominciato a collaborare con i giudici.

"Dopo l'arresto di Mario Chiesa, nel febbraio 1992, al Palazzo di Giustizia di Milano prese sempre più piede un comportamento che pochi avrebbero saputo prevedere: gli imprenditori cominciarono a raccontare cosa accadeva dietro le quinte di ogni appalto: cifre, percentuali, nomi dei cassieri, partiti di appartenenza. Insomma, cominciò una specie di lotta di liberazione dalla tangente, un rito collettivo. Molti parlarono subito, altri, quelli che non credevano che Tangentopoli potesse crollare, soltanto successivamente (dopo aver provato il carcere)." (Carlucci A., 1993)

Si può tranquillamente affermare che nella lotta alla corruzione si sono persi più di dieci anni. Uno dei magistrati componenti il pool Mani Pulite, Gherardo Colombo, sostenne che lo scandalo Tangentopoli poteva venire a galla già nei primi anni '80, dopo il ritrovamento nel 1981 degli elenchi della Loggia P2 e delle tracce del "Conto Protezione". Ma l'inchiesta, aperta proprio da Colombo, fu trasferita a Roma e qui archiviata. Allora il fenomeno della corruzione politica era meno diffuso di quanto lo sia diventato in seguito, pertanto forse si sarebbe potuto evitare l'enorme giro di tangenti venutosi a creare a seguito delle grandi opere pubbliche che sono state fatte tra il 1981 e il 1994.

"Per troppo tempo sono stati messi in opera diversi sistemi di depistaggio delle indagini. Il più drastico è quello di uccidere il magistrato; il secondo imbrogliare le carte a livello investigativo; l'ultimo consiste nella trasmigrazione dei processi."
(Gherardo Colombo, "Il Giornale, 22 gennaio 1995)

E' chiaro come la risposta al perchè del ritardo di Tangentopoli non possa essere univoca, ma debba far riferimento a più cause e più circostanze che, essendosi incontrate contemporaneamente in un determinato momento storico, hanno posto in essere un grandissimo processo di rinnovamento della classe politica italiana.

 

5.4 I TENTATIVI DI INTERDIZIONE DELL' INCHIESTA "MANI PULITE"

E' evidente che i giudici non avrebbero potuto fare ciò che hanno fatto senza un forte sostegno dell'opinione pubblica, ed è stata proprio quest'ultima che ha permesso di respingere i molteplici tentativi di ingerenza nell'inchiesta provenienti da ogni direzione.

Nonostante l'arresto in flagranza di Mario Chiesa nel 1992, la classe politica corrotta non si preoccupò più di tanto, d'altronde non era la prima volta che qualche giudice volenteroso tentava di colpire l'ambiente politico ed in passato i politici corrotti, oltre a non essere mai finiti in carcere (con le sole eccezioni di Mario Tanassi, per l'affare Lockheed, e di Pietro Longo, per lo scandalo tangenti della metropolitana milanese), sono sempre stati prosciolti o hanno evitato il giudizio per sopravvenuta prescrizione; rarissimi sono i casi di politici dimessisi dalle loro cariche a seguito di scandali. Stando così le cose, anche l'azione di questo giudice, Antonio Di Pietro, fino ad allora sconosciuto, sarebbe stata bloccata con i soliti metodi e con la stessa facilità.

Il Partito Socialista Italiano, direttamente coinvolto nell'affare Chiesa, cercò innanzitutto di delegittimare l'azione dei giudici milanesi attraverso la stampa. Chi si sarebbe mai permesso di obbiettare la parola di Craxi?

"Contro il Psi è in atto una campagna infamante, condotta con metodi infami, soprattutto quelli ispirati dal puro e semplice desiderio di colpire a fondo il partito. Sto stilando una lista di sciacalli, ipocriti e falsi moralizzatori." ("L'Indipendente", 6 maggio 1992)

"La magistratura sta esagerando, si accanisce ingiustamente contro la classe politica e farebbe bene ad adottare provvedimenti di siffatta violenza, in dispregio dei diritti dei cittadini, nei confronti dei mafiosi invece di perseguitare onorevoli, assessori, sindaci e segretari regionali." (stralcio da un esposto di Gennaro Acquaviva, capo della segreteria politica di Bettino Craxi, pubblicato sul "Corriere della sera" del 29 giugno 1992)

Le proteste arrivarono anche da ambienti extra-politici; è il caso dell'arcivescovo de L'Aquila, monsignor Peressin, che, nel dicembre 1992, nel suo consueto discorso dell'Immacolata Concezione di fronte a centinaia di fedeli, attaccò i giudici abruzzesi dell'inchiesta "Mani pulite":

"Fratelli, dite una preghiera per i politici arrestati. Pregate per le autorità che stanno passando un momento difficile, nonostante stiano facendo soltanto il loro dovere. Stanno perseguitando i politici: devono avere più rispetto delle persone. Soltanto Dio è il giusto giudice delle azioni di ogni uomo." ("L'Indipendente", 10 dicembre 1992)

E' interessante sottolineare che l'arcivescovo era stato sottoposto alle indagini, insieme ad alcuni personaggi eccellenti aquilani, per i bilanci poco chiari della Perdonanza Celestiana, una festa religiosa che si svolge a fine agosto e che ha un budget miliardario.

Un duro colpo per l'inchiesta milanese lo si ebbe con la notizia del suicidio in carcere dell'ex presidente dell'Eni, Gabriele Cagliari, l'8 marzo 1993. Fu questo il quarto suicidio per Tangentopoli, infatti dopo la morte di Sergio Castellari era seguita quella di Renato Amorese e di Sergio Moroni, entrambi dirigenti del Psi.

Nelle diverse lettere scritte da Cagliari prima del suicidio si denota un non celato disprezzo nei confronti dei giudici:

"Loro che coi complici vogliono mettere le mani sui nostri interessi, che hanno tra loro la stessa competizione o sopraffazione che vige nel mercato, con la differenza che, in questo caso, il gioco è fatto sulla pelle della gente. Loro che inscenano farse tragiche e allucinanti e infliggono pene smisurate. Loro che sono giustizia si, ma tra virgolette. Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. Il loro obbiettivo è quello di costringere ciascuno di noi a rompere, definitivamente e irrevocabilmente, con quello che loro chiamano il nostro ambiente." (Andreoli M., 1994 p. 25) (vedasi appendice n° 6)

Da più parti venne messa sotto accusa la carcerazione preventiva e la facilità con cui Di Pietro ed i suoi colleghi vi hanno ricorso; persino il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, grande sostenitore dei giudici, mosse loro una critica sentenziando che il danno che si arreca alla persona privandola della libertà deve essere commisurato alla gravità del fatto e del pericolo e la carcerazione preventiva deve essere un'eccezione motivata e non una regola.

Alle accuse mosse dall'onorevole Vittorio Sgarbi ("giudici assassini"), si levò dal parlamento, quasi a comando, una voglia di garantismo, esortando i magistrati a rispettare le regole; non mancarono le interrogazioni parlamentari e le interpellanze contro i "giudici che abusano della carcerazione preventiva e che spingono gli imputati alla disperazione e perfino al suicidio". Il senatore Marco Pannella organizzò una riunione di decine di parlamentari (quasi tutti inquisiti) davanti a Montecitorio alle sette del mattino, in segno di protesta (anche se non si è mai capito in riferimento a cosa).

Il Sostituto procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo, in una lettera inviata al quotidiano "Il Giornale", scrisse esplicitamente:

"Oggi l'uso distorto dell'esercizio del potere cautelare da parte dei giudici viola non soltanto la legge penale processuale ma anche l'articolo 13 della Costituzione. [...] Il procuratore generale della Corte di cassazione avrebbe affermato che ogni giorno si assistono a condotte gravissime che se non provenissero da magistrati che appaiono spesso sui giornali, potrebbero portare all'apertura di azioni disciplinari. [...] Ha perfettamente ragione, pertanto, il ministro Biondi allorquando afferma che non vi sono magistrati intoccabili e invita il procuratore generale della Corte di cassazione a segnalargli i 'casi spinosi' ." (da un articolo del giudice Alberto Di Pisa pubblicato su "Il Giornale" del 3 ottobre 1994)

Vittorio Sgarbi, presidente della Commissione Cultura della Camera, dopo aver affermato che "i magistrati sono una casta che ha perso potere, degli sfigati che si accaniscono sulle inchieste in corso per avere pubblicità", chiese il trasferimento dell'inchiesta Mani pulite da Milano a Brescia in quanto "esiste un'insanabile conflittualità oggettiva tra il pool di Mani pulite e la Fininvest che impedisce uno svolgimento sereno, ineccepibile, giuridicamente incontestabile, ma che invece si configura sempre più come un'azione politica smaccatamente persecutoria", e ancora, l'on. Ombretta Fumagalli Carulli, già componente del Csm, affermò che "i magistrati non possono a colpi di comunicati stampa condizionare la pubblica opinione, così che essa prema sul Parlamento." ("Il Giornale", 29 giugno 1994 e 20 settembre 1994)

Dopo la richiesta di custodia cautelare per Paolo Berlusconi, avanzata dal pool milanese il 26 luglio 1994 in relazione all'inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi criticò il protagonismo dei giudici e la loro tendenza ad occuparsi di cose politiche.

"Se vogliono governare il paese, decidere le leggi, assumersi le responsabilità di guida dell'economia, allora devono ottenere un mandato dal popolo sovrano. Ogni eccesso di immagine e di sostanza è un colpo alla credibilità dello Stato. L'opera di moralizzazione è stata sacrosanta, ma la politica fatta con i processi, il regime fondato sul giustizialismo, sulle manette facili, sul carcere per estorcere confessioni sono cose già viste nell'Europa dell'Est, prima della caduta del Muro." ("Il Giornale", 27 luglio 1994)

"Sotto le loro toghe non si nasconde altro che il vecchio potere che, sicuro qualche mese fa di poter governare il paese ed invece uscito battuto dalle urne, sogna una immediata rivincita servendosi appunto del volto intimidatorio della giustizia." ("L'Indipendente", 27 luglio 1994)

Notiamo come più di una volta sia stata data all'azione dei giudici milanesi una matrice politica; da più parti sono state mosse accuse per la presunta non ingerenza del pool negli affari del Pds, e sarà questa strumentalizzazione che indurrà il giudice Antonio Di Pietro a dimettersi dalla magistratura. Accuse pesanti in questo senso arrivano da Tiziana Parenti, ex pm del pool Mani pulite, oggi parlamentare di Forza Italia, che ha sempre sostenuto la tesi secondo cui l'inchiesta non sia nata per caso, bensì abbia una matrice politica difficile da interpretare.

"Esiste una forte politicizzazione dei magistrati e soprattutto un forte senso della corporazione. Certo, non tutti i giudici sono di sinistra. ma questa parte negli ultimi anni è riuscita ad alimentare il senso della corporazione, a guidarla, solleticandone gli istinti con una politica tesa all'affermazione di carriere garantite e alti stipendi. Questo ha abbassato il livello delle coscienze professionali, e ha aumentato il senso del potere." (da un intervista pubblicata su "Panorama" del 21 ottobre 1994)

Altre accuse arrivarono da Tiziana Maiolo, presidente della commissione giustizia, secondo cui una parte della magistratura si è strutturata in centro di potere a causa della delegittimazione della classe politica e si presta a fare proclami politici.

Il sindaco di Milano, Marco Formentini, ritiene che "La Procura di Milano ha tantissimi meriti ma anche il demerito di essersi messa a far politica." ("L'Indipendente, 16 luglio 1994)

Il senatore Umberto Bossi, in un'intervista rilasciata a "L'Unità" il 16 luglio 1994, disse:

"Questi magistrati devono smetterla di fare politica, sono malati di protagonismo. Devono tornare nel loro alveo istituzionale. Nessuno di loro è indispensabile".

E fu lo stesso Bossi a pronunciare la famosa frase: "La vita di un magistrato vale trecento lire, il costo di una pallottola".

Mario Patrono, ex membro laico del Csm, fu più esplicito nelle sue accuse ed affermò senza mezzi termini che la Procura di Milano è schierata a favore del Pds.

"I magistrati hanno il merito di aver contribuito alla fine di un ceto politico corrotto, ma hanno il torto di aver cercato di pilotare il cambiamento, accreditando il teorema della estraneità del Pci-Pds da Tangentopoli: un teorema che mai avrebbe potuto sorgere senza il manto protettivo che la procura di Milano e tante altre procure in tutta Italia hanno teso intorno ai finanziamenti illegali del Pds." ("Panorama" del 6 Agosto 1994)

Le critiche al pool milanese sono giunte anche dall'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga che decise di togliere la sua prefazione dal libro di Antonio Di Pietro, "Costituzione italiana: diritti e doveri" (nonostante questo fosse già in vendita), perchè non condivideva più l'operato del pool di Mani pulite.

L'opera di delegittimazione dei giudici milanesi, oltre agli attacchi diretti e diffamatori, è stata costituita anche da una vera e propria strategia della calunnia. E' storica l'affermazione di Craxi: "Ho in mano un poker d'assi contro Di Pietro", alludendo a inesistenti prove circa la poca linearità della condotta professionale del giudice. Ancora più interessanti sono le affermazioni di Luca Masini, che fino al luglio 1992 ha collaborato con Di Pietro in qualità di uditore alla procura di Milano. In un'intervista a "L'Espresso" del 27 settembre 1992, Masini racconta di continue pressioni, tentativi di ostacolare le indagini ed infangare l'immagine dei magistrati; ad esempio sono stati offerti soldi a vecchie conoscenze di Di Pietro per indurli a dire qualcosa contro di lui. Un tentativo più ingegnoso fu la nomina di Gherardo Colombo e Di Pietro a consiglieri d'amministrazione di una clinica in odore d'illegalità; appare ovvio che i giudici abbiano immediatamente rifiutato, ma quel che è interessante è che chi ha inviato la raccomandata ben sapeva che quella carica è incompatibile con il ruolo di magistrati e sperava che i due giudici non si accorgessero subito della cosa e quindi finissero nei libri sociali di una società da loro inquisita. D'altronde, uno dei metodi più usati per infangare un magistrato è quello di andare a rivedere tutti i provvedimenti di archiviazione che ha fatto durante la sua carriera, alla ricerca di possibili errori o addirittura casi di favoritismo.

Anche il finanziere socialista Sergio Cusani, condannato a otto anni di reclusione nel processo per la maxitangente Enimont, ha contribuito al tentativo di screditare l'opera del pool, e, grazie ad un suo esposto, il giudice Di Pietro ha visto il suo nome comparire su una lista di indagati alla Procura di Brescia, anche se il procedimento è stato successivamente archiviato per l'infondatezza delle accuse mossegli dal finanziere. Cusani, al termine del processo, cominciò a lanciare accuse pesanti:

"Tangentopoli deve arrivare alle colpe dei magistrati, che per anni hanno omesso le loro azioni. Sto raccogliendo tutti gli ordini d'arresto emessi dal gip di Milano: tolti i nomi, sono tutti uguali. La Procura usa metodi inquisitori intollerabili. Arrivato a San Vittore, un pm mi ha minacciato: o collabori o esci tra due anni." ("L'Indipendente", 27 luglio 1994)

Quanto appena visto è una breve panoramica di quasi tre anni di accuse provenienti da ogni direzione. Nonostante questa costante pressione i giudici milanesi hanno continuato caparbiamente nel loro lavoro, favoriti dall'enorme sostegno morale conferito loro dalla gente di qualsiasi credo politico, da una parte di mass-media e da quasi la totalità della magistratura italiana. (vedasi appendice N° 3)

Non essendo riusciti con le accuse a scalfire l'immagine e la professionalità "super partes" dei magistrati, si è cercato di bloccare l'inchiesta ricorrendo a vie legislative. Già durante il Governo Amato e successivamente col Governo Ciampi si parlò di attuare una "soluzione politica a Tangentopoli". Tale proposta, presentata dal ministro Giovanni Conso e battezzata dai mass media "colpo di spugna", prevedeva tra l'altro la depenalizzazione del reato di finanziamento illecito dei partiti e se fosse stata approvata avrebbe trasformato i pagamenti illegittimi ai partiti in una semplice irregolarità, sanabile con un'ammenda. Alla fine il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro non firmò i decreti che così non entrarono mai in vigore rispettando la volontà popolare.

A metà luglio 1994 il Governo Berlusconi approvò all'unanimità un decreto legge presentato dal ministro di Grazia e giustizia Alfredo Biondi. La ratio di quello che passerà alla storia giudiziaria come il "decreto Biondi" consisteva nel ribadire il concetto, previsto dal Codice di procedura penale, che la carcerazione preventiva è una misura eccezionale e non deve essere la norma, in altre parole i giudici non devono ottenere prove e confessioni con la minaccia del carcere, ed un personaggio inquisito non è già condannato. A tal proposito già due anni prima l'avvocato Vittorio Chiusano affermava:

"La facoltà di non rispondere è prevista dalla legge. Per quanto nobili siano le finalità dei magistrati, altrettanto importante è il ricorso alla legalità. I giudici non hanno fatto mistero di voler considerare premiante la collaborazione dell'indagato. Quando l'indagato riferisce fatti in sintonia con l'accusa, la misura cautelare viene revocata o attenuata. Si può avere la sensazione che si utilizzi il ricorso a certi mezzi estremi per acquisire notizie dall'imputato." (Turani-Sasso, 1992 p. 100)

Il 16 luglio 1994 tutti i quotidiani italiani, appartenenti a qualsiasi area politica, titolavano in prima pagina che gli italiani non volevano il decreto Biondi, e pubblicavano i risultati di un sondaggio Doxa in base al quale il 63% dei cittadini si opponeva al decreto che scarcerava, tra gli altri, i tangentisti. Lo stesso Governo non si aspettava una protesta di queste dimensioni e si spaccò al suo interno: il ministro dell'Interno Maroni disse di essere stato ingannato circa il contenuto del decreto e di aver firmato senza aver avuto il tempo di leggerlo attentamente, il ministro per i Rapporti col Parlamento Giuliano Ferrara minacciò le dimissioni del Governo nel caso in cui il decreto non fosse passato, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi diede il pieno appoggio al ministro Biondi, la Lega Nord e Alleanza Nazionale, dopo aver sentito l'opinione pubblica, chiesero la modifica del decreto all'atto della sua conversione in legge, ed in particolare che i reati di corruzione e concussione non godessero dei benefici proposti dalla nuova normativa. Le opposizioni si schierarono compatte contro il decreto Biondi e chiesero ai giudici milanesi, che nel frattempo avevano annunciato le loro dimissioni, di rimanere al proprio posto; nelle principali città italiane si svolsero manifestazioni contro il decreto e a Genova i giudici manifestarono insieme alle organizzazioni sindacali; ancora una volta fu enorme il sostegno della gente nei confronti del pool milanese di Mani Pulite e a migliaia manifestarono sotto il Palazzo di Giustizia dando massima solidarietà alla Procura di Milano. (vedasi appendice N°7)

Diversi sono i motivi dell'enorme insuccesso di tale decreto. Una delle critiche principali mossegli dai parlamentari era che, trattandosi di una materia delicatissima, non poteva essere affrontata con lo strumento del decreto legge visto, tra l'altro, che non c'erano i requisiti di assoluta urgenza, bensì era opportuno ricorrere ad un disegno di legge.

Altre fortissime critiche hanno riguardato il contenuto del decreto che, essendo stato emesso in un particolare momento storico, è sembrato riguardare principalmente gli indagati di Tangentopoli. Di questo avviso erano i giudici delle principali Procure italiane:

"Sembra particolarmente grave la costituzione di una sorta di doppio binario della giustizia tra cittadini di serie A e di serie B ; ci sembra che dal punto di vista tecnico siano state commesse delle gravissime ingenuità." (Pm Salvi della Procura di Roma; "Il Giornale", 16 luglio 1994)

"La nuova disciplina appare ispirata a criteri iniqui, impedendo l'applicazione della custodia per delitti di corruzione, concussione e peculato, e mantenendo tale possibilità per reati meno gravi e di minor allarme sociale e incidenza sulla situazione economica del Paese." (da un documento scritto da 9 magistrati della Procura di Bologna; "Il Giornale", 16 luglio 1994)

"Sentiamo la necessità di esprimere un appello alla difesa della giurisdizione, per la prosecuzione di un'attività che ha ottenuto il risultato di portare allo scoperto a quale livello di illegalità fossero giunti i principali meccanismi affaristico-politici nel nostro Paese."
(da un comunicato dei magistrati della Procura di Napoli; "Il Giornale", 16 luglio 1994)

"Non mi piace la dietrologia. Ma guardiamo gli effetti oggettivi, sotto gli occhi di tutti: oggi alcuni imputati di Mani Pulite sono a casa loro. Poi ci sono imputati per reati di scarsa gravità che restano in carcere. E' giusto, mi chiedo, oltre che legale?." (da un'intervista di Elena Paciotti, presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, pubblicata su "L'Unità" del 16 luglio 1994.)

Guardando al contenuto degli articoli, si nota obbiettivamente che la norma, pur prevedendo una distinzione oggettiva basata sulla gravità del reato, tutelava in maniera predominante gli inquisiti di Tangentopoli. Ecco i punti cardine del decreto:

a) Arresto: il decreto impediva l'arresto durante le indagini di coloro che sono accusati di reati contro la pubblica amministrazione, consentendo però gli arresti domiciliari. La custodia cautelare restava nei casi di reati come l'associazione a delinquere, il terrorismo, il traffico di droga, l'omicidio, il furto e le lesioni aggravate, l'estorsione, il vilipendio alla corte, il vilipendio di cadaveri.

b) Scarcerazione: come conseguenza del punto precedente sarebbero usciti dal carcere tutti gli indagati per i reati di Tangentopoli (corruzione e concussione) e altri non sarebbero stati arrestati.

c) Indagini e informazione: veniva vietata la pubblicazione di notizie su indagini e avvisi di garanzia finchè non fosse stata chiamata in causa dall'azione della magistratura anche la difesa. (art. 8)

d) Difesa e accusa: il giudice per le indagini preliminari, prima di autorizzare la custodia cautelare richiesta dal pubblico ministero, avrebbe dovuto conoscere le osservazioni della difesa.

Il decreto Biondi non verrà mai convertito in legge ne reiterato, tuttavia nella sua breve esistenza (poco più di una settimana) avrà l'effetto di far scarcerare circa 2500 tra detenuti comuni, esponenti politici e imprenditori in attesa di giudizio tra cui Pierr di Maria (moglie di Duilio Poggiolini) e l'ex ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo, il quale tornerà in carcere allo scadere del decreto. Inoltre i timori per la tenuta del Governo contribuirono alla perdita di posizioni della lira nei confronti delle principali valute (il 15 luglio 1994 il marco fu quotato a 994,90 contro le precedenti 991,14 e il dollaro americano a 1547,56 lire contro le 1543,12 del giorno precedente). Lo stesso ministro Biondi riconobbe un anno dopo che si trattò di un grande sbaglio politico.

Il problema della carcerazione preventiva rimase sempre all'ordine del giorno e nel febbraio 1995 la Camera approvò a larghissima maggioranza un disegno di legge, varato dalla Commissione Giustizia della Camera, che impedisce il ricorso alla custodia cautelare (compresi gli arresti domiciliari) per gli imputati che, in caso di condanna, possono usufruire della sospensione condizionale della pena; e questo il caso della maggioranza degli imputati di Tangentopoli. Il provvedimento prevede inoltre la modifica dell'articolo 280 del Codice di procedura penale stabilendo che la custodia cautelare non potrà superare in nessun caso i quattro anni di reclusione. Una critica al disegno di legge fu fatta in aula dal deputato Verde, Alfonso Pecoraro Scanio:

"Il contenuto della legge elaborato dalla Commissione Giustizia, pur avendo rinunciato al tentativo iniziale di legare le mani al pool di Mani Pulite, suona, tuttavia, come messaggio negativo a quei tanti magistrati che con notevoli sacrifici in questi anni hanno affrontato il difficile compito di smantellare il sistema di Tangentopoli." ("La Stampa", 15 febbraio 1995)

Quanto segue, benché non possa configurarsi come un tentativo vero e proprio di interdizione dell'inchiesta "Mani pulite", ha contribuito ad inasprire ulteriormente i rapporti tra i giudici milanesi ed il Governo Berlusconi, qui rappresentato dal ministro Alfredo Biondi. Faccio riferimento all'inchiesta ordinata dal ministro, il 18 ottobre 1994, nei confronti del pool milanese e alle successive ispezioni alla Procura della Repubblica di Milano. Lo scopo dell'inchiesta era quello di eseguire approfonditi accertamenti e verificare eventuali comportamenti dei magistrati della Procura milanese che avessero reso necessario l'inizio dell'azione disciplinare ed inoltre dissipare una volta per tutte dubbi e perplessità su presunte forzature del pool.

Gli ispettori dovevano far luce su ben determinati episodi:

a) Caso Darida: Clelio Darida, ex ministro della Giustizia, era stato arrestato su richiesta di Di Pietro con l'accusa di aver ricevuto tangenti e rimase in carcere per quasi due mesi. L'inchiesta fu trasferita successivamente a Roma perché si riferiva a tangenti versate per appalti della metropolitana della capitale. Darida venne assolto ed il 15 settembre 1994 il Pg Giulio Catelani inviò una nota al ministero in cui non nascondeva perplessità circa il modo di conduzione delle indagini preliminari, suggerendo una raccolta di dati sulla vicenda. Il Procuratore Borrelli giustificò l'unico interrogatorio di Darida nei due mesi sottolineando il rifiuto dell'imputato di chiarire i fatti a lui contestati.

b) Le perquisizioni a Publitalia: Silvio Berlusconi poco prima delle elezioni politiche del marzo 1994 fece un esposto denunciando l'accanimento della Procura milanese nei confronti della società concessionaria per la raccolta pubblicitaria delle reti Fininvest. Ancora una volta il Procuratore generale di Milano Giulio Catelani segnalò al ministero alcuni profili di illegittimità del provvedimento in questione.

"Contro la Fininvest il pool Mani pulite ha violato la legge. E' una questione oggettiva. La perquisizione del 16 marzo nella sede di Publitalia va contro il nuovo codice e contro le sentenze della Cassazione. Una volta i magistrati potevano andare a cercare, adesso la giurisprudenza è cambiata. Devono indicare prima che cosa intendono cercare." ("Il Giornale", 20 ottobre 1994)

A queste affermazioni ribatté il presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Elena Paciotti:

"A parte il fatto che la Cassazione ha anche sostenuto l'opposto, mi piacerebbe davvero sapere se una semplice denuncia presentata da un semplice cittadino e non dal signor Berlusconi, futuro capo del Governo, avrebbe portato addirittura ad un'ispezione contro il pool." ("L'Europeo", n° 43 del 2 novembre 1994)

c) La riunione di Arcore: Nel luglio 1994 Berlusconi organizzò nella sua villa una riunione a cui parteciparono anche gli avvocati Oreste Dominiconi e Guido Viola, difensori di Salvatore Sciascia, direttore dei servizi fiscali della Fininvest, da tempo indagato dalla Procura Milanese. Il giorno dopo Di Pietro interrogò Sciascia. Il problema sorse perchè, stando al contenuto del verbale, sembrerebbe che il pm chiese con una specifica domanda informazioni sulla riunione. Francesco Saverio Borrelli affermò invece che si trattò di una spontanea dichiarazione da parte del dirigente Fininvest.

d) L'esposto di Confalonieri: Nell'ottobre 1994 il Presidente della Fininvest Confalonieri inviò un esposto al Procuratore generale della Cassazione, Vittorio Sgroi, e al Pg di Milano, denunciando il metodo dell'inchiesta su Telepiù che, a suo parere, era proceduta senza ipotizzare responsabilità personali e precise.

e) Le altre accuse: Il maggiore della Guardia di Finanza Aldo Lattanzi, prima di essere arrestato, sottoscrisse una nota in cui sottolineava che, dopo le dimissioni di Tiziana Parenti dal pool milanese, le attività di polizia giudiziaria sui presunti finanziamenti illeciti a Pci-Pds erano risolte in sporadici e trascurabili adempimenti. Il generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello presentò un esposto accusando Borrelli e Colombo di voler a tutti i costi farlo confessare. Alla lista si aggiungono poi altri episodi di secondo piano.

I magistrati del pool hanno più volte criticato le ispezioni ministeriali ordinate dal ministro Biondi. Antonio Di Pietro durante la requisitoria del processo per le tangenti legate alla discarica di rifiuti in Lombardia disse che il pool di Mani pulite veniva messo sotto accusa perchè indagava seriamente, "senza guardare in faccia a nessuno". Si disse anche amareggiato perchè tutto ciò non faceva altro che bloccare il lavoro di Mani pulite:

"Fino a pochi giorni fa scoprivamo dieci fatti di reato al giorno, 200 pagine di verbale. L'altro ieri ho incontrato il collega Greco che mi ha chiesto come mai non gli mando più i verbali. Perché non ne arrivano più, gli ho risposto. In questo clima di tensione nessuno si presenta più." ("Il Giornale", 29 ottobre 1994)

Il procuratore D'Ambrosio fu il primo ad essere interrogato dagli ispettori ed affermò che l'ispezione era illegittima perchè v'era un'inchiesta in corso e si creava un clima di sfiducia nei confronti di chi collaborava.

"Sono convinto che come abbiamo chiarito oggi, avremmo potuto chiarire ogni cosa a indagini concluse. Insomma, nessuno ha ostacolato o rallentato le indagini della Parenti." ("Il Giornale", 24 novembre 1994)

Pesanti critiche all'iniziativa del ministro Biondi arrivarono anche da gran parte della stampa italiana, una per tutte fu l'articolo scritto da Massimo Fini in cui si leggeva:

"Il ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Biondi manda gli ispettori a Milano perchè indaghino su quei Pubblici ministeri che hanno scoperchiato il verminaio di Tangentopoli e da due anni e mezzo lavorano al limite delle loro forze psicofisiche. E su che base li manda? Su quella ridicola della miseria di dieci esposti (chiunque può fare un esposto) che sono ictu oculi privi di fondamento o per i soggetti che li hanno inviati (si tratta, per lo più, di arrestati o indagati che hanno, com'è umano, il dente avvelenato con i Magistrati di Mani pulite) o per le motivazioni che ne vengono date. [...] Neanche i famigerati ministri socialisti della Giustizia avevano dimostrato una simile protervia. Bisognava aspettare l'avvocato liberale Alfredo Biondi e il suo burattinaio, l'imprenditore liberaldemocratico Silvio Berlusconi, per arrivare a tanto sconcio." ("L'Europeo", n° 43 del 2 novembre 1994)

Il culmine della crisi tra i magistrati milanesi ed il ministro Biondi arrivò a seguito della lettera inviata il 28 novembre 1994 da Francesco Saverio Borrelli al Presidente della Repubblica e al Consiglio Superiore della Magistratura, con la quale il Procuratore capo di Milano denunciava gli abusi e, in certi casi, gli illeciti penali che a suo parere erano stati commessi dagli ispettori del ministero in occasione delle ispezioni alla Procura di Milano.

Il procuratore chiedeva ai destinatari della lettera quale comportamento tenere in riferimento ad un'ispezione che riteneva aver esorbitato dai suoi naturali ambiti amministrativi, infatti gli amministratori avevano dimostrato di conoscere atti istruttori e avevano interrogato funzionari di polizia giudiziaria, circostanze che configurano una illecita ingerenza di un organo amministrativo, diretta emanazione del Governo, su inchieste penali in corso e coperte dal segreto d'ufficio. D'altronde l'indagine voluta dal ministero aveva solo contenuto amministrativo (tempi delle inchieste, rispetto dei ruoli, efficienza) e non poteva entrare nel merito di processi in corso. Pronta fu la risposta del ministro Biondi:

"Perché Borrelli si è rivolto al Csm per sapere quali procedure attuare nei confronti degli ispettori? I suoi sono argomenti pretestuosi; anzi, il suo ragionamento ha un carattere pesantemente intimidatorio nei confronti di colleghi che esercitano una funzione ispettiva, prevista e tutelata dalla legge." ("Il Giornale", 3 dicembre 1994)

Queste polemiche altro non portarono che alle dimissioni dei 20 ispettori del ministero di Grazia e Giustizia i quali scrissero, in data 13 dicembre 1994, all'indirizzo del loro capo Ugo Dinacci, un documento con cui denunciavano "le gravi difficoltà negli ultimi tempi determinatesi nell'espletamento dell'attività istituzionale".

Ugo Dinacci girò a sua volta la lettera al ministro Biondi dicendogli di condividere parola per parola le affermazioni dei colleghi. Neanche il tentativo del ministro Biondi riuscì a convincere gli ispettori a recedere dal loro proposito.

Quanto visto finora rappresenta un campione delle innumerevoli polemiche, accuse, critiche e minacce che hanno caratterizzato oltre due anni di inchieste e i cui unici due risultati sono stati il rallentamento delle indagini e l'abbandono del pool milanese da parte del giudice Antonio Di Pietro. Già in precedenza il magistrato aveva manifestato l'intenzione di abbandonare l'inchiesta Mani pulite, ma era sempre rientrato dalla sua decisone. Il 6 dicembre 1994 invece, con una lettera indirizzata a Francesco Saverio Borrelli, Di Pietro annunciò le proprie dimissioni dall'ordine giudiziario. Anche se la notizia era stata data il giorno prima da un telegiornale della Fininvest nessuno aveva creduto alla fondatezza di quelle voci, invece quella volta il protagonista dell'inchiesta Mani pulite aveva preso una decisone irrevocabile. Ci si chiese e ci si chiede tuttora i motivi di tale decisione, ma nessuno, se non il diretto interessato, potrà mai individuare con certezza il perchè di quella scelta. Probabilmente se l'inchiesta non fosse stata oggetto di tante pressioni esterne Di Pietro sarebbe ancora al suo posto, infatti, nella sua lettera di dimissioni, il giudice denuncia una insopportabile strumentalizzazione del suo operato:

"Mi sento usato, utilizzato, tirato per le maniche, sbattuto ogni giorno in prima pagina sia da chi vuole contrappormi ai suoi nemici sia da chi vuole così accreditare un inesistente fine politico in ciò che sono le mie normali attività. Tutte queste distorsioni interpretative del mio agire, da me non volute, stanno alimentando uno scontro nel Paese, in presenza del quale stento a ritrovare il significato profondo del mio ruolo di magistrato, per cui ho prestato giuramento. Sento pertanto il dovere, come uomo e come cittadino, di fare qualcosa per riportare serenità e fiducia nelle istituzioni."

Per evitare ulteriori problemi Di Pietro precisò, in una telefonata col ministro Biondi, che la sua decisione non era scaturita a seguito delle ispezioni ministeriali e neanche le richieste ufficiali di ritirare le proprie dimissioni del ministro della Giustizia e del Presidente della Repubblica riuscirono a fargli cambiare idea. Dopo le dimissioni di Di Pietro (che venne sostituito dal giudice Armando Spataro), i restanti membri del pool milanese, Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D'Ambrosio, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e Paolo Ielo assicurarono che Mani pulite non sarebbe finita e che avrebbero continuato nel loro lavoro nonostante l'abbandono del loro collega. Successivamente Francesco Saverio Borrelli in un comunicato stampa dirà:

"Prendo atto con pensoso e addolorato rispetto di una decisone che non ho titolo per contrastare e che è certamente sorretta da motivazioni sofferte e gravi, connesse al ruolo di spicco di Antonio Di Pietro nell'azione di giustizia condotta da questo ufficio in un clima di crescente, ingiuriosa ostilità. La nostra azione di giustizia proseguirà egualmente senza soste, senza timore, senza debolezze: me ne rendo garante." ("Il Giornale", 7 dicembre 1994)

A seguito dell'annuncio delle dimissioni del magistrato più famoso d'Italia, la stragrande maggioranza di politici, giornalisti, imprenditori ed economisti, compresi coloro che fino al giorno prima avevano criticato il suo operato, espressero grande rammarico per la sua decisione, ma ciò non bastò ad impedire che il mercato azionario milanese perdesse l'1,83% bruciando, almeno sulla carta, una cifra superiore ai seimila miliardi, e che il dollaro americano passasse da una quotazione di 1.618,48 lire del 5 dicembre ad una quotazione di 1.624 il giorno seguente ed il marco tedesco da 1.026,63 a 1.032,34.

 

5.5 I TENTATIVI DI RISOLUZIONE DELL' INCHIESTA "MANI PULITE"

Già dai primi mesi di indagini si capì che l'inchiesta "Mani Pulite" avrebbe assunto dimensioni notevoli che avrebbero richiesto anni di indagini e che avrebbero creato non pochi problemi nella vita politica ed economica del Paese. Per questi motivi da più parti giunsero proposte per risolvere l'inchiesta in tempi contenuti cercando di smorzare il tono delle polemiche.

Nel luglio 1992 il sindacalista Ottaviano Del Turco propose di amnistiare i politici corrotti:

"Se i partiti saranno in grado di fare una vera autocritica e dimostreranno un reale rinnovamento, allora è giusto pensare ad un'amnistia. Un provvedimento che sancisca la fine di un'epoca." ("L'Indipendente", 3 luglio 1992)

Tale proposta fu bollata come inopportuna e infelice anche dagli stessi compagni di partito di Del Turco i quali non accettarono neanche il paragone con l'amnistia ai fascisti promossa da Togliatti nel 1946 perchè in quel caso c'era una sostituzione integrale della classe dirigente che si fa quando c'è una rivoluzione o una guerra civile. La proposta di Del Turco non fu presa neanche in considerazione dal Parlamento.

Sempre nel luglio 1992 il giudice del Pool Mani Pulite, Gherardo Colombo, riprendendo la proposta avanzata da un suo indagato, Roberto Mongini, formalizzò una proposta:

"Chi si presenta al magistrato e dichiara tutto quello che sa su di sé e sulle persone con le quali è entrato in contatto, restituisce quello di cui si è appropriato e da indicazioni precise e dettagliate per recuperare il denaro, per un tempo ragionevole, né tanto breve né tanto lungo, sarà interdetto dai pubblici uffici, come pena accessoria. In cambio del contributo offerto alle indagini, sarà esentato dall'applicazione della pena principale, la detenzione." ("L'Europeo", 22 giugno 1994)

Nel giugno 1993 il ministro Giovanni Conso, dopo le aspre polemiche seguite a decreti da lui presentati nel marzo 1993, propose un nuovo pacchetto di provvedimenti legislativi sulla corruzione politica. Abbandonata la depenalizzazione del finanziamento illecito dei partiti, si prevedeva per i reati di Tangentopoli il dimezzamento della pena, purché i colpevoli avessero confessato i propri reati e si fossero impegnati a restituire i soldi delle tangenti e la preclusione all'elezione in Parlamento e all'assunzione di cariche pubbliche nell'ambito della pubblica amministrazione.

Nel giugno 1994, un mese prima dell'entrata in vigore del "decreto Biondi", il sottosegretario alla giustizia Domenico Contestabile, con l'avallo del suo ministro Alfredo Biondi, annunciò un disegno di legge, da approvare rapidamente con una corsia preferenziale in Parlamento, per risolvere il "problema Tangentopoli". Tale disegno di legge prevedeva l'estensione della possibilità di utilizzare il patteggiamento e il rito abbreviato per chi, entro un periodo di 180 giorni, si fosse autodenunciato e si fosse impegnato a restituire le somme intascate più gli interessi. In ogni caso sarebbe scattata l'interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Anche il procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, si dichiarò in parte favorevole ad una estensione dei limiti del rito alternativo del patteggiamento da 2 a 3 anni e mezzo di pena purché venisse esteso a tutti i reati.

"Le proposte [del sottosegretario alla Giustizia Domenico Contestabile, ndr] non sono ancora articolate, ribadisco però che è nell'interesse della giustizia in generale trovare una soluzione che porti all'incremento del patteggiamento, purché non venga limitato ai soli casi di Tangentopoli. Non mi scandalizzo se accusa e difesa scendono a patti e viene prevista la disponibilità dell'imputato ad accettare una pena per lui indubbiamente più favorevole ma che resta pur sempre una condanna. Questa norma consentirebbe anche l'accellerazione della definizione dell'inchiesta "Mani Pulite" facilitando la raccolta delle prove per scoprire l'intreccio perverso tra pubblica amministrazione e affarismo privato. In ogni caso si deve trattare di norme introdotte non per determinate categorie di rei e reati ma per tutti indistintamente i reati e i colpevoli." ("Il Giornale", 9 giugno 1994)

Anche queste proposte, la cui ratio era quella di permettere di arrivare ad una sentenza definitiva prima dell'arrivo della prescrizione (i reati di corruzione con attenuanti generiche e di finanziamento illecito dei partiti cadono in prescrizione dopo sette anni e sei mesi, abbastanza pochi per tre gradi di giudizio), non avranno seguito soprattutto a causa delle polemiche che nasceranno a seguito del "decreto Biondi".

Il 3 settembre 1994 il giudice Antonio Di Pietro, durante un discorso da lui tenuto al convegno di Cernobbio, indicò una soluzione legislativa per uscire da Tangentopoli "senza colpi di spugna né ghigliottina".

"E' possibile rompere la contraddizione intrinseca nella fase della repressione e passare a quella della collaborazione affinché ciò che è successo non possa più avvenire. [...] Tuttavia per il passato è innanzitutto necessario il rispetto della legalità, non è infatti possibile se non una soluzione giudiziaria al problema, perchè altrimenti è un colpo di spugna, piaccia o non piaccia. Perché per il passato la soluzione giuridica deve essere quella soluzione che permetta alle imprese, ai politici, di guardare al futuro."
("Il Giornale", 4 settembre 1994)

Il pool di Mani pulite, insieme a professori universitari, avvocati e consulenti delle associazioni degli imprenditori, aveva già messo a punto una proposta di legge che, nella bozza del 10 agosto 1994, comprendeva 12 articoli accompagnati da una relazione di 14 pagine. La proposta prevedeva pene più severe per corrotti e corruttori, introduceva la figura del "pentito" e disponeva la non punibilità per coloro che, prima dell'intervento dei giudici, ed entro tre mesi dalla commissione del reato, avessero confessato fornendo i nomi degli altri responsabili e avessero versato alla magistratura una somma pari a quella ricevuta. La stessa agevolazione era prevista per coloro che avessero confessato di aver violato la legge sul finanziamento pubblico dei partiti. L'art. 9 della legge prevedeva che nel caso qualcuno avesse dichiarato il falso davanti al giudice, il procuratore generale presso la Corte d'Appello avrebbe richiesto la revoca della sentenza di non luogo a procedere o la revisione della sentenza pronunciata nel dibattimento. La non punibilità veniva estesa anche a chi avesse commesso il reato in una data anteriore (da specificare) alla prima presentazione pubblica della proposta di legge e comunque entro sei mesi dall'entrata in vigore della stessa, sempre che il reo avesse spontaneamente denunciato i fatti, fornendo indicazioni utili per l'individuazione dei responsabili. In quest'ultimo caso la proposta prevedeva l'interdizione temporanea dai pubblici uffici e la non applicazione delle disposizioni che prevedono la sospensione ovvero la cancellazione dagli albi. Nonostante questa proposta abbia raccolto giudizi positivi da parte degli imprenditori, non è mai stata presa seriamente in considerazione dal Parlamento.

Nel febbraio 1995, il segretario politico del Partito Popolare Italiano, Rocco Buttiglione, propose un'amnistia per i reati tipici di Tangentopoli:

"Non possiamo mandare in carcere tutti quelli che per pagarsi i costi della politica hanno ottenuto danaro per vie illegali. Ci vuole un'amnistia. La legge dovrebbe farla Antonio Di Pietro, come ministro della Giustizia." ("La Stampa", 19 febbraio 1995)

Questa dichiarazione aprì un dibattito vivace tra le forze politiche, la cui maggioranza non fu favorevole. L'agenzia stampa Adn Kronos raccolse, in merito, le opinioni dei politici:

Luciano VIOLANTE (Pds): "Pensare ad un'amnistia è inutile e tardivo. Forse poteva avere senso due anni fa, ma oggi sarebbe più utile varare una legge che preveda, oltre alla non eleggibilità dei condannati di Tangentopoli, anche che restituiscano il maltolto."

Pietro FOLENA (Pds): "E' un modo propagandistico di proporre scorciatoie generalizzate e indiscriminate, che dovrebbero trovare la loro legittimazione morale nella firma di un guardasigilli come il dott. Di Pietro."

Piero FASSINO (Pds): "Tutti i grandi cambiamenti e le rivoluzioni sono accompagnati da provvedimenti come le amnistie. Occorre però seguire il principio che chi amnistia sia diverso da chi deve essere amnistiato."

Ignazio LA RUSSA (An): "La proposta di Buttiglione ricorda il più vecchio stile democristiano: far fare agli altri una cosa che non si ha il coraggio di fare direttamente. Se si pensa che Di Pietro debba fare il guardasigilli, questo deve essere scollegato da un'amnistia per tangentopoli, così come se si vuol trovare una soluzione a Mani Pulite, questa non deve per forza passare per Di Pietro ministro della Giustizia".

Alfredo BIONDI: "L'amnistia e sempre una rinuncia. Credo che lo Stato debba trovare delle formule di giustizia, io le avevo proposte, per evitare che vi sia un incrudelimento e nello stesso tempo la dimenticanza del delitto che è sempre un fatto grave."

LEGA DEI SOCIALISTI (gruppo lombardo che afferma di far riferimento a Craxi): "L'amnistia è una scorciatoia per deviare dalla via maestra dove ancora potrebbero incontrarsi uomini e gruppo nel mondo istituzionale, politico ed economico, passati miracolosamente illesi nella bufera di questi anni."

Gherardo COLOMBO (Pm del pool Mani Pulite): "Sono contrario da sempre ad un'amnistia perchè non consentirebbe di scoprire più nulla. Certo, dipende dalle proporzioni; ma un'amnistia che coprisse i reati di corruzione, concussione e finanziamento illecito non permetterebbe di portare alla luce gli illeciti nei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino, e lascerebbe in mano a chi non è stato ancora scoperto armi formidabili di ricatto. Per conto mio, sono fermo alle mie proposte di tre anni fa."

Carlo TAORMINA (avvocato): "Più che di leggi nuove c'è bisogno di giudici che le applichino correttamente. Se fosse così, scopriremmo che molte ipotesi di finanziamento illecito sono invece state configurate come corruzione o concussione. Certo, se i magistrati avessero fatto meglio il loro mestiere ci ritroveremmo con moltissimi casi di finanziamento illecito e con pochi casi di corruzione e concussione. A quel punto l'amnistia proposta da Buttiglione, che interessa solo il finanziamento illecito, risolverebbe sul serio il problema. ma le cose, purtroppo, non stanno così." (da "La Stampa", 19 febbraio 1995)

La proposta di Rocco Buttiglione non ebbe seguito in Parlamento.

Io penso che la cosa più importante non sia decidere come far terminare l'inchiesta Mani pulite, anche perchè questa non può essere eterna e ad un certo punto si estinguerà autonomamente. In realtà bisogna pensare al dopo-inchiesta, cioè cominciare ad impostare un sistema che impedisca il risorgere delle condizioni che hanno portato a questa situazione. Certo, l'obbiettivo non è facilmente raggiungibile perchè la corruzione in Italia si è consolidata a seguito di decenni di consuetudinario tacito assenso e l'impatto che l'inchiesta ha avuto sulla popolazione non è di per sé in grado di impedire un futuro ritorno all'illegalità.

Bisogna ricominciare dall'inizio. Se è vero che si vuole superare la Prima Repubblica bisogna creare ex novo la convinzione della necessità di un sistema legale in modo tale che la corruzione non sia più vista come uno dei modi con cui ottenere qualcosa, bensì sia intesa come un atto di viltà proprio di chi non ha il coraggio di misurarsi con le proprie forze. Per far questo non occorrono mesi di dibattiti; occorrono nuove leggi che consentano di avviare immediatamente un programma di prevenzione per il futuro e di dura repressione per il passato e il presente. La prevenzione deve essere finalizzata alla creazione di un'etica e una morale nella mentalità delle giovani leve, quindi programmi educativi a partire dalle scuole elementari che insegnino a rifiutare e a denunciare il fenomeno corruzione; la repressione ha invece il compito di punire e isolare i disonesti, nonché essere da monito per coloro che non hanno ancora deciso da che parte stare. Frasi del tipo: "Tanto, anche se venissi scoperto, starei qualche mese in carcere e poi potrei godermi indisturbato i soldi che ho nascosto", non dovranno neanche essere pensate, ma per giungere a questo bisogna evitare che in futuro si ripetano vicende come quelle di Eraldo Luxi, direttore generale dell'autostrada Messina-Catania, che, dopo aver ammesso le sue colpe ed aver patteggiato la sentenza a 18 mesi, senza pene accessorie, per le tangenti miliardarie al Consorzio A18, ritornò al suo incarico di direttore generale, con uno stipendio di 8 milioni mensili e oltre 100 milioni tra arretrati, interessi e rivalutazioni. ("Corriere della Sera", 14 febbraio 1995)

Convengo sul fatto che un sistema è tanto più democratico quanta meno repressione c'è al suo interno e che quest'ultima deve essere l'eccezione e non la regola, pertanto occorre puntare molto sulla prevenzione, unica via che darebbe efficacia ad una nuova legislazione che consenta l'efficiente controllo e gestione delle imprese pubbliche e private ed il rispetto di nuovi codici di comportamento imprenditoriale.

"Il governo deve essere in grado di identificare e premiare coloro che antepongono l'integrità dello Stato al guadagno personale. Deve essere inoltre in condizione di formulare minacce credibili di punizione nei confronti di coloro che violano i criteri di onestà dell'azione pubblica. Infine, deve esistere una classe imprenditoriale non così cinica da ritenere che non sia possibile guadagnare denaro onestamente." (Rose-Ackerman, 1994 p. 73)

 

5.6 GLI OBBIETTIVI E I RISULTATI DELL' INCHIESTA "MANI PULITE"

Il merito principale dell'inchiesta Mani pulite è stato quello di dimostrare ciò che tutti sospettavano: l'altissimo livello di corruzione a cui era giunto il sistema politico italiano. Per la prima volta dal 1946 gli Italiani sono stati testimoni di un profondo processo di ristrutturazione del Paese ed hanno partecipato con entusiasmo alle vicende giudiziarie che hanno portato in carcere (o semplicemente a dimettersi da qualsiasi incarico pubblico) alcuni dei leader massimi della politica italiana nella prima Repubblica, oltre che alle centinaia di funzionari, faccendieri, dirigenti dei servizi segreti, componenti della Guardia Di Finanza e imprenditori. Per la prima volta i magistrati non hanno avuto le mani legate, o non hanno voluto averle, ed hanno indagato, arrestato e fatto condannare quei personaggi che fino a pochi mesi prima erano considerati degli "intoccabili".

Sembra quasi impossibile che l'inchiesta sia riuscita a riunire i cittadini di qualsiasi credo politico, estremi compresi, in un'unica certezza: l'inchiesta deve continuare. Eppure così è stato ed i colpevoli non sono riusciti a risollevare la propria immagine ormai distrutta dalla confessione di decine di accusatori.

Nonostante lo scandalo di Tangentopoli fosse scoppiato solo da poche settimane, il suo primo effetto fu quello di contribuire alla fine del Pentapartito (DC, PSI, PRI, PLI, PSDI), infatti le elezioni politiche anticipate del 5-6 aprile 1994 fecero avere ai partiti tradizionali un drastico ridimensionamento: la DC perse il 4,6% alla Camera e il 6,3% al Senato, Il PDS, anche se notevolmente indebolito rispetto al PCI, rimase il primo partito della sinistra e il secondo del Paese, emersero nuove formazioni politiche quali la Lega Nord che divenne il quarto partito italiano dopo DC, PDS e PSI, la Rete che sfiorò il 10% in Sicilia e Rifondazione Comunista che superò il 5% in quasi tutto il Paese. Ma l'XI legislatura si aprì con lo spettro di Tangentopoli le cui vicende portarono, circa un anno dopo, alla delegittimazione del Parlamento, basti pensare che nel luglio 1993 i parlamentari inquisiti per reati inerenti l'inchiesta Mani Pulite erano 151 così ripartiti:

Tab. 5.1 (da "L'Indipendente del 15 luglio 1993)

In vista delle elezioni politiche anticipate del 27-28 marzo 1994, i principali partiti politici inquisiti nell'inchiesta furono costretti a cambiare il nome (la DC divenne il Partito Popolare Italiano e il PLI divenne L'unione del Centro Democratico), il simbolo (PSI), o a fondersi in vaste alleanze (i Progressisti formati da PDS, RIFONDAZIONE COMUNISTA, PSI, RETE, VERDI, CRISTIANO-SOCIALI E ALLEANZA DEMOCRATICA) con la speranza di riuscir a dare un'immagine rinnovata di se stessi. Ma il responso delle urne fu inclemente tanto che relegò all'opposizione, insieme ai Progressisti, quei partiti che da sempre avevano governato il Paese.

Stando ai dati ufficiali forniti in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario 1995, nel 1994 sono diminuiti drasticamente i reati di corruzione, concussione e finanziamento illegale ai partiti:

Tab. 5.2 (da "Il Giornale", 15 gennaio 1995)

 

Analizzando la tabella, i cui dati si riferiscono solo alle nuove cause aperte ogni anno con l'esclusione di quelle pendenti, notiamo come dal 1989 al 1992 non siano riportati i numeri; questo non significa che in quegli anni non si compissero i reati in oggetto, bensì che nessuno li denunciava e che nessuna procura della Repubblica vi indagava. Uno dei meriti dell'inchiesta è stato quindi quello di eliminare il velo di omertà che li copriva. L'aspetto grave sta nel fatto che nel '93/94, dopo più di un anno di indagini, si rilevino ancora dei dati elevati e, se è pur vero che una certa percentuale degli stessi sia stata commessa gli anni precedenti e scoperta successivamente, risulta chiaro come l'inchiesta non sia riuscita ad eliminare completamente il sistema delle tangenti.

La diminuzione dei reati negli ultimi anni è frutto dell'azione repressiva e di disturbo della magistratura la quale ha reso più rischioso il rapporto di corruttela ma non è riuscita a imporre l'etica sociale in base alla quale la corruzione va evitata per una questione morale e non di rischio sanzionatorio. Se non si introducono nuove leggi che disciplinino la materia alla luce di quanto è stato scoperto negli ultimi anni, la magistratura potrà solo continuare a svolgere il suo compito istituzionale, cioè sanzionare i colpevoli nel rispetto di leggi introdotte negli anni in cui la corruzione, la concussione e l'illecito finanziamento dei partiti erano materia d'esami e non realtà accertata, pertanto, stando così le cose, questi reati continueranno ad esistere perchè i partiti politici non possono farne a meno. Certo, ci vorranno anni prima che il livello torni a quello di Tangentopoli, ma così sarà. A conferma di quanto appena scritto ci fu il caso della Lega Nord, il partito che denunciò più di tutti i furti della prima Repubblica e che a sua volta violò la legge sul finanziamento pubblico dei partiti accettando un contributo di 200 milioni dal gruppo Ferruzzi per far fronte alle spese per la campagna elettorale del '92. Gli stessi dirigenti del partito ammisero che quello era l'unico modo per sopravvivere politicamente e se si pensa che allora la Lega Nord era una forza politica non di spicco e quindi non in grado di fornire favori in cambio del contributo, risulta chiaro di che somme in "nero" potessero disporre i partiti che da decine di anni calcavano la scena politica.

Uno degli obbiettivi dell'inchiesta è quello di recuperare i miliardi costituenti le tangenti e restituirli a chi di dovere. Il 15 aprile 1994 il ministro delle Riforme Istituzionali, Francesco Speroni, presentò in Senato un disegno di legge in base al quale comuni, province, aziende municipalizzate, enti, imprenditori concussi, avrebbero potuto costituirsi parte civile e chiedere direttamente ai partiti il risarcimento di danni provocati dalle tangenti a loro pagate. D'altronde anche per il Ministro della Giustizia Alfredo Biondi il patteggiamento e l'uscita di scena per chi aveva violato le leggi era subordinato alla restituzione del maltolto.

Appare chiara la difficoltà di realizzare in concreto questa proposta di legge senza tener conto che molto spesso era un singolo personaggio ad intascare le tangenti e a distribuirle a uno o più partiti. Ad esempio, nel corso di una deposizione resa al processo Cusani, l'ex senatore della Democrazia Cristiana, Severino Citaristi, spiegò che per far quadrare i conti tra l'86 e il '92 incassò più di cento miliardi di provenienza illegale che non tenne per sé ma li utilizzò per la macchina organizzativo-elettorale democristiana. Siccome con l'attuale legislazione i politici condannati in sede penale diventano i capri espiatori con cui rivalersi in sede civile al momento di quantificare e liquidare il denaro, l'ex tesoriere della DC milanese Maurizio Prada inviò una diffida ai responsabili del suo partito elencando puntigliosamente tutti i contributi extralegali da lui depositati nelle casse del partito e quantificandoli in 16 miliardi e 940 milioni. Questo perchè l'Azienda energetica municipale si era costituita parte civile nei suoi confronti chiedendo il risarcimento dei danni morali e patrimoniali patiti, per tanto Prada chiese al partito un versamento della somma indicata per far fronte a eventuali condanne.

I problemi che sarebbero potuti sorgere dal fatto che diversi partiti hanno negli ultimi anni cambiato nome o si sono divisi sono stati previsti nel disegno di legge in cui si specifica che la responsabilità civile verrebbe ereditata dalle nuove formazioni politiche nate a seguito dello scioglimento del partito inquisito. L'importanza di questa proposta sta nel fatto che, se un giorno venisse tramutata in legge dal Parlamento, gli eredi politici dei partiti disciolti (Partito Popolare Italiano, Partito Democratico della Sinistra, Partito Socialista Italiano, UCD, Rifondazione Comunista, ecc.) si vedrebbero costretti a vendere i loro patrimoni per far fronte alla sterminata fila dei danneggiati.

A mio parere nell'individuazione dei danneggiati andrebbe però effettuata una distinzione tra coloro che sono stati obbligati a pagare, cioè i concussi, e coloro che invece hanno corrotto i politici, cioè i corruttori. Ai primi, allorquando dimostrino che il pagamento della tangente sia stato effettuato esclusivamente per tutelare un diritto acquisito legalmente e non per acquisirne uno illegalmente, sarebbe giusto restituire solo una percentuale del maltolto mentre la restante parte dovrebbe esser versata allo Stato, ad esempio sotto forma di ammenda, per non aver denunciato l'estorsione. I corruttori, invece, oltre a non ricevere nulla, dovrebbero risarcire coloro che sono stati danneggiati a seguito dell'accordo illecito.

E così fu per la Metropolitana Milanese che nel settembre 1994 ricevette circa 12 miliardi da politici e aziende che preferirono chiudere la partita con la giustizia tramite il patteggiamento; tuttavia si trattò di un acconto perchè in quel momento solo 33 dei 91 imputati coinvolti nello scandalo degli appalti della Metropolitana Milanese ricorsero al patteggiamento, mentre i restanti, tra cui Craxi, Larini, Pillitteri, hanno preferito attendere il processo ordinario. Solo le imprese dovettero pagare caro il prezzo della libertà, infatti, per essere ammesse al patteggiamento versarono circa il 70% del totale delle tangenti pagate ad amministratori e politici.

Anche la Giunta comunale di Milano, nel settembre 1994, decise di avviare le pratiche di acquisizione dei risarcimenti dovuti all'amministrazione da politici e funzionari condannati in processi per tangenti sin dalla sentenza di primo grado, senza attendere gli esiti di eventuali appelli. Nel novembre 1994 il comune di Milano aveva recuperato solo 5 miliardi che sono solo una piccola parte rispetto all'enorme giro di tangenti che ha interessato l'amministrazione comunale. Ma questi soldi non sono stati versati dai nomi eccellenti coinvolti nell'inchiesta, quali Tognoli e Pilliteri, condannati a restituire circa 500 milioni, ne tanto meno da Bettino Craxi che, grazie ad un errore procedurale dell'amministrazione comunale, ha ottenuto dal Tribunale l'esclusione del Comune dal processo penale a suo carico in qualità di parte civile.

Il vero problema, sollevato dal procuratore generale della Corte dei Conti, Emidio Di Gianbattista, in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario 1995, è che gli speculatori di Tangentopoli, grazie alla legge 142 del 1990, vedranno cadere in prescrizione dopo cinque anni (prima erano 10) i danni erariali da loro causati. Siccome nel 1993 il Parlamento, con l'eccezione della Lega Nord, estese la norma anche a Usl e Regioni, lo Stato e gli enti pubblici non potranno più rivalersi sui beni degli amministratori pubblici disonesti (e loro eredi) che abbiano commesso reati prima del 1990, a meno che non vengano condannati entro il 13 giugno 1995. Il fatto è che, attualmente, anche se si riuscisse a condannare i colpevoli entro i termini previsti dalla legge, non è detto che le sentenze verrebbero rispettate, infatti in passato i giudici contabili, dopo aver indagato, accertato i reati e fatto condannare i responsabili, non riuscirono ad ottenere neanche la minima parte di quanto disposto dalla sentenza. Innumerevoli sono i casi di questo genere, a cominciare dai maxi risarcimenti chiesti e mai ottenuti dai protagonisti del gigantesco scandalo dei petroli in cui la Corte dei Conti stabilì che l'ex comandante della Guardia di Finanza, Raffaele Giudice, e l'ex capo di Stato Maggiore del Corpo, Donato Lo Prete, dovessero restituire all'Erario 213 miliardi di lire. E ancora un anno dopo, nel 1984, quando il vecchio Banco Ambrosiano fu condannato a rimborsare all'Erario 34 miliardi per il danno provocato da esportazione illegale di valuta, fino a giungere ai giorni nostri in cui l'ex ministro delle Finanze, Rino Formica, è stato condannato dalla Corte dei Conti, per aver concesso a prezzi stracciati affitti in appartamenti lussuosi, a restituire all'Erario 686 milioni di lire quale differenza tra canoni e interessi maturati nel corso degli anni.

Nella tabella seguente viene indicata una lista di dieci personaggi, inquisiti nelle varie inchieste collegate a Mani Pulite, con il relativo ammontare di tangenti e somme varie di cui devono rispondere alla Magistratura ed il partito politico d'appartenenza.

Tab. 5.3 (da "Il Giornale", 21 gennaio 1995)

NOMI PARTITI CIFRE

-------------------------------------------------------------------------------------------------

1) BETTINO CRAXI PSI 207.322.000.000

2) SEVERINO CITARISTI DC 73.459.000.000

3) ARNALDO FORLANI DC 36.500.000.000

4) GIORGIO MOSCHETTI DC 28.565.000.000

5) GIOVANNI PRANDINI DC 21.000.000.000

6) CARLO MEROLLI DC 15.000.000.000

7) GIORGIO GANGI PSI 14.000.000.000

8) VINCENZO BALZAMO PSI 12.000.000.000

9) GIORGIO LA MALFA PRI 9.693.000.000

10) FRANCESCO DE LORENZO PLI 9.000.000.000

---------------------------------------------------------------------------------------------------

TOTALE 426.539.000.000

Le leggi vigenti non permettono di fatto il recupero di queste centinaia di miliardi, sia perchè si avvicinano i termini di prescrizione, sia perchè qualche inquisito è nel frattempo morto, sia perchè gran parte delle somme sono protette in chissà quali conti bancari esteri.

Se si pensa che esistono centinaia di personaggi che potenzialmente dovrebbero restituire allo Stato il frutto delle loro tangenti, per reati compiuti prima del 1990, risulta evidente la necessità di ridiscutere la legge 142/90.

L'inchiesta Mani pulite non è quindi di per se in grado di far restituire tutto il maltolto, non per sua imperizia, ma a causa di una legislazione a volte incurante di elementari principi di etica e diritto a cui si aggiungono cause oggettive quali l'impossibilità per lo Stato di rivalersi sui beni e sulle somme che furono depositate all'estero in previsione di una eventuale azione della magistratura.

Siccome la legge finanziaria per il 1994 consentiva di sottoporre ad imposizione fiscale tutti i guadagni illeciti, tangenti comprese, la Guardia di Finanza si mise al lavoro su un filone di indagini di Mani pulite ormai conclusosi con rinvii a giudizio o addirittura con le prime condanne. Furono inviati all'ufficio imposte un elenco di politici romani, dirigenti ministeriali e funzionari comunali, accusati di aver intascato illegalmente 123 miliardi e che ovviamente non avevano dichiarato al fisco. Facendo proprio riferimento all'evasione fiscale, l'ufficio imposte inviò agli interessati degli avvisi di accertamento per cifre corrispondenti alle tangenti intascate.

Continuando a seguire questa strategia, nelle casse dello Stato non entrerebbero solo le tangenti ritrovate sui conti bancari degli inquisiti, ma anche le relative tasse. Ma anche in questo caso è prevedibile che i tempi non saranno brevi, infatti, prima di poter comunicare agli uffici finanziari delle varie città nomi degli evasori e cifre, i nuclei centrali di polizia dovrebbero attendere la fine delle indagini preliminari e, solo a seguito della richiesta di rinvio a giudizio degli imputati, sarebbe possibile investire della responsabilità l'ufficio imposte locale. Quest'ultimo, a sua volta, trasmetterebbe l'avviso di accertamento all'inquisito con cui lo invita a versare quanto dovuto all'erario. (da "L'Europeo" n° 23 del 15 giugno 1994)

Si tenga presente inoltre che l'inchiesta non è materialmente in grado di colpire la totalità di amministratori, portaborse, impiegati e prestanome che hanno operato nell'ombra illegalmente per decenni, accumulando veri e propri patrimoni. Quindi, per poter scoprire e recuperare i "tesori sepolti" di Tangentopoli sarebbe opportuno percorrere altre strade come ad esempio controlli fiscali completi circa le disponibilità finanziarie di chi, negli anni sospetti, ha ricoperto cariche pubbliche ed ha amministrato i soldi della collettività.

La prova che questo sistema è valido la si ha guardando alla vicenda di Michelangelo De Salvo che per molti anni è stato dirigente all'assessorato Istruzione e formazione professionale della regione Lombardia. Da controlli effettuati dalla Guardia di Finanza è risultato che sui suoi conti correnti sono affluiti, tra l'89 e il '92, più di 20 miliardi.

"Al momento dell'intervento delle Fiamme Gialle la contabilità entrate-uscite registrava un saldo positivo di 4 miliardi e mezzo. Non male per chi compilava il 740 dichiarando un reddito di 60-70 milioni l'anno. E invece il grigio servitore dello Stato [De Salvo, ndr] galleggiava su un mare di soldi. Per capirlo basta scorrere i nomi dati ai 20 libretti al portatore sparsi fra la Cariplo, il Credito Milanese, il Credito Valtellinese e una miriade di istituti di credito. Non basta, perchè nel portafoglio di De Salvo vanno inclusi anche 5 o 6 conti correnti e 4 dossier titoli, gonfi di bot e cct miliardari, oltre a partecipazioni azionarie in aziende biomedicali."
("Il Giornale", 28 settembre 1994)

Qualora questi individui riuscissero ad uscire indenni dall'inchiesta, dovrebbero dimostrare al fisco che i miliardi in loro possesso non sono di loro proprietà ma che semplicemente hanno messo a disposizione ad altri il proprio conto corrente. A parte il fatto che questa è un impresa molto difficile, anche se ci riuscissero perderebbero l'intera somma che, nella migliore delle ipotesi, verrebbe messa sotto sequestro per gli accertamenti del caso. Altrimenti, visto che nella quasi totalità dei casi si tratta di soldi non dichiarati al fisco, sulla cifra incriminata verrebbe applicata una aliquota impositiva del 51% più il pagamento di una elevatissima penale; il risultato sarebbe che la quasi totalità del "bottino" finirebbe nelle mani del fisco e quindi dello Stato.

Una conseguenza negativa ed inevitabile dell'inchiesta Mani pulite, causata in gran parte dall'eccessivo livello di burocratizzazione dello Stato, è rappresentata da un ulteriore rallentamento delle attività nella pubblica amministrazione. A seguito dei primi arresti, l'incertezza e la paura di sbagliare hanno paralizzato molte decisioni pubbliche e, di conseguenza, private. Prima di apporre una firma un funzionario onesto ci pensa tre volte perchè teme che il minimo difetto nella pratica lo possa esporre all'accusa di corruzione, il funzionario che invece era solito chiedere tangenti preferisce ora bloccare la pratica finchè non gli venga offerto ciò che non osa più chiedere apertamente.

Gli effetti giuridici dell'inchiesta hanno quindi contribuito a rallentare il lavoro dei funzionari disonesti ed anche quello dei funzionari onesti la cui solerzia nell'espletare il proprio lavoro potrebbe destare sospetti. La soluzione a questa ambigua situazione non può arrivare che dal Parlamento il quale dovrebbe attuare una deregulation che consenta maggior respiro ai cittadini e ai funzionari preposti ai controlli. Oggigiorno lo Stato "asfissia" con la sua presenza, le sue regole, spesso vessatorie, ogni settore sia pubblico che privato. Le regole ci vogliono, ma devono essere strettamente necessarie e non finalizzate esclusivamente alla ricerca di una perfezione che spesso porta ad una loro applicazione soffocante e distorta. Il Parlamento dovrebbe quindi esemplificare la legislazione inducendo a sorvolare su infrazioni a rischio nullo, per evitare che si ripetano episodi come quello di "un contadino che rischiò l'incriminazione perchè, aiutando un operaio del Comune, su sua richiesta, ad alzare un tombino della fognatura, si ruppe un piede e, siccome la manutenzione delle fogne pubbliche non rientra nei compiti dell'agricoltura, con quel comportamento antisindacale il contadino aveva aggravato i conti della Sanità." (da "Il Giornale", 6 giugno 1994)

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